Sull’introduzione agli Al-Mażāhiru-l-Ilayyaħ di Mollā Şadrā
Sull’introduzione agli Al-Mażāhiru-l-Ilayyaħ di Mollā Şadrā
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Sayyid Moĥammad Ķāmeney
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di Sayyid Moĥammad Ķāmeney (prima parte) R. Arcadi Sayyid Muhammad Khamenei vicino ad un ritratto di Mulla Sadra Il testo che qui vogliamo segnalare ed esaminare, è l’introduzione in lingua persiana, di Sayyid Muĥammad Ķāmeney, fratello della Guida dei Musulmani, Sayyid Alì Ķāmaney, alla pubblicazione dell’originale arabo di un’opera capitale di Mollā Şadrā, Al Mażāhiru –l-Ilahiyatu fyi-l-ºulūmi-l-Kmāliyyaħ (“Le manifestazioni divine nei segreti delle Scienze perfettive”) Non è peraltro di quest’ultima opera, quantunque fondamentale, che vogliamo qui occuparci. Sebbene ad essa faremo riferimento, in rapporto alle considerazioni che la concernono, contenute nel testo suddetto. Riguardo al quale, non dobbiamo certo farci ingannare dal fatto che si tratti di un’introduzione. Più che tale semplicemente, essa costituisce in effetti un’opera a sé stante, peraltro ancor più lunga del testo al quale essa si riferisce, testimonianza del grande sapere del nostro autore, che fa del nostro autore uno dei massimi esponenti della corrente sadriana di pensiero e conoscenza nel mondo islamico contemporaneo. In effetti, questo scritto è di assai largo respiro, trattando in primo luogo, in generale, delle origini del pensiero discorsivo ed argomentativo, in senso stretto la cosiddetta “filosofia”, termine usato peraltro anche in arabo ed in persiano, ma a nostro avviso di cui avvalersi solamente per traslato, non in senso proprio; per tacere degli effetti riprovevoli che l’ignoranza dell’antica lingua ellenica può produrre sul pubblico contemporaneo, ignaro talvolta suo malgrado. Fatto sta che, nell’esposizione del nostro autore, a nostro modesto avviso peraltro irreprensibile, la radici del pensiero argomentativo sono tutt’altro che tali. In effetti, possiamo distinguere, a questo medesimo riguardo, due aspetti e due differenti dimensioni, l’una delle due subordinata all’altra. La prima dimensione essendo quella di stretta pertinenza della conoscenza presenziale ed identitaria, ovverosia immediata, in un significato affatto trascendente ed eminente. Nel senso che essa conduce da ultimo, siccome recita lo stesso Mollā Şadrā, sulla scorta della corrente Platonica, dallo stesso Platone a Plotino, e prima ancora Parmenide, con una linea che riporta all’antecedenza presenziale, ad un’identità tra conoscente e conosciuto, procedente per gradi, che sono gli stessi livelli dell’esistenza, sino ai fastigi stessi dell’essere, con la sua identità semplice e distintiva, e la sua Identità Suprema compiutamente risolutiva. È questa in effetti la radice prima, peraltro voluta o non voluta, accettata o non accettata che essa sia, del pensiero razionale, argomentativo, e discorsivo in senso lato, il quale giammai potrà darsi, a prescindere da assunti di per sé stessi evidenti, a vari livelli che ciò avvenga, dalla mera sensibilità corporea, sino ai fastigi stessi della trascendenza, i secondi dei quali saranno definitivi, a dispetto della pretesa di considerare i primi come tali, e non derivati. Nel senso che, tanto per intenderci, una qualsivoglia definizione discorsiva, radice di tutto il resto, presupporrà o due termini equivalenti al definito, l’uno dei quali circoscriva l’altro, oppure un equipollente più noto. La qual cosa, al fine di evitare un circolo vizioso, od una sequenza indefinita la quale non porterebbe a nulla, anche dato che potesse sussistere, non può concludersi se non con un’evidenza, con un termine in greco antico detto ”apodittico”, vale a dire, dal quale abbia a procedere tutto quanto il successivo dimostrare. Termine il quale a sua volta, conclusa che se ne sia l’ascesa siccome principio primo, non potrà essere negato, com’è per l’ente, o l’essere riflessivo e reduplicativo, vale a dire, “essere che è”, secondo la nota espressione di Parmenide, dai suoi frammenti pervenutici, ripresa da Platone e da Plotino, la cui negazione comporta ancora l’essere, dato che il nulla, appunto sua negazione, appunto non è, cedendogli dunque a sua volta il campo. Quest’evidenza procede peraltro, come dicevamo, di livello in livello, da quella inferiore delle mere percezioni sensibili, sino ai “trascendenti”, o “trascendentali”, i quali nulla hanno a che vedere con le forme soggettive della percezione sensibile, come pretenderebbe Kant. Che ignorava quasi del tutto il pensiero tradizionale, nella fattispecie la Scolastica, avendone un qualche sensore per il tramite della concezione deformante wolfiana, di matrice protestantica, vale a dire, arbitraria e soggettiva, a dispetto di tutte le pretese. Avremo pertanto tutta una successione ascendente di conoscenze presenziali, grazie alle quali il conosciuto viene trasposto di livello in livello nell’identità del conoscente stesso, sino all’articolazione nominale, vale a dire, delle qualità superne trascendenti dell’essere puro infinito, semplice e distinta nel contempo, ed in quell’identità Suprema dell’essere compiutamente risolutiva, semplicemente semplice, ed infinitamente infinita. Dove facciamo riferimento, dicendo di “conoscenza presenziale”, alla distinzione, peculiare alla sapienza islamica, essendo implicita in ogni dove del pensiero tradizionale, tra “conoscenza presenziale”, e “conoscenza consecutiva”, vale a dire, argomentativa. Dov’è da rilevarsi che la prima, sino al suo risolversi superno e supremo, nel quale ultimo non le sarà più dato di sussistere, si avvarrà pur sempre dell’ausilio della ragione, vale a dire del conseguimento e dell’argomentazione, la qual cosa le dà in effetti il giusto valore. Questo assunto dà peraltro ragione della manchevolezza delle pretese leggi aristoteliche dell’argomentazione e del discorso, la cosiddetta “logica”, aggettivo derivato da “logos”, “verbo”, o più banalmente, “discorso”. Laddove esse non si fondano su di un principio originale, quale era in definitiva quello della trascendenza platonica, lo “autò”, detto secondariamente “idea”, il più delle volte impropriamente, con un riferimento meramente mentale, il che ha dato origine agli abusi di Heidegger. Ma fondandosi invece su di alcunché di derivato, di secondario, che conduce indebitamente dalla molteplicità contraddittoria all’unità non contraddittoria, in opposto a quella che dovrebbe essere invece la via retta, vale a dire, dall’unità trascendente complessiva, alla molteplicità in sé dispersiva ed apparentemente incoerente. Senza tener conto del caso in cui, di converso, si ascenda sì, ma mercé di una previa discesa, che dà il suo senso all’ascesa stessa, rendendola peraltro possibile, da velleitaria che era nel caso opposto. Dov’è anche da osservarsi, che nessuno giammai, se non parzialmente, com’è avvenuto per gli Scolatici, si è avvalso di queste leggi, come avveniva nella fattispecie per Socrate e Platone che, siccome dicevamo, a tutt’altro fanno riferimento. Dove lo stesso Mollā Şadrā se ne avvaleva nelle argomentazioni negative, pagando un tributo ai suoi avversari aristotelici, per tacere poi di tutte le immaginazioni moderne sulla presa pluralità arbitraria delle “logiche”, enunciata da Gödel suo celebre “teorema”, peculiare di chi ha del tutto perduto ogni qualsivoglia riferimento trascendente. Questo medesimo principio trascendente, dove vale la pena osservare che la sua trascendenza nulla ha a che vedere con l’alterità esistenziale, o legislativa, la cosiddetta “eteronomia”, ma con l’identità eminente che traspone di livello in livello le realtà inferiori, identificandosele come il loro stesso sé; questo principio, assunto al suo livello massimo, deve essere universale, concernendo nella fattispecie, come inclusivo dell’insieme delle realtà processive derivate, anche lo stesso pensiero discorsivo, dandogli il suo giusto valore. Il quale pensiero argomentativo in ogni caso, anche in quello di una sua scorretta assunzione, verrà sempre a riferirvisi, seppure per mera negazione od alterazione, le quali abbiano inevitabilmente a supporre un alterato od un negato, non potendosi sostenere di per sé, per via della sua negatività, che comporta un inevitabile riferimento. Questo in effetti, sia laddove se ne abbia, od anche laddove non se ne abbia invece nessun sentore, a dispetto di tutte le pretese speciose di farne invece ad alcunché di originale ed indiscutibile. Avvalendocene dunque nella sua universalità, sarà peraltro opportuno osservare com’è questo medesimo principio verrà a riferirsi, nella sua natura onnicomprensiva e trascendente, in primo luogo alla funzione eminente del palesamento delle qualità superne e supreme, essendo peraltro questo, siccome dice l’Imam Ķomeynī nella sua Mişbaĥ, il suo ufficio precipuo, previo alle sue successive derivazioni, sia esistenziali, sia giuridiche. E qui, per non ingenerare confusioni, sarà opportuno introdurre alcune osservazioni ulteriori. La sequela del palesamento della trascendenza potrà in effetti concernere l’ambito più distintamente intellettivo, parte di quello esistenziale, nel senso di procedere, dal suo domino esistenzialmente eminente, a quello dell’eminenza rappresentativa, radicata nella distinzione dell’essere e nella sua univocità. Per cui ogni essere, finito o no che esso sia, viene allora ad includere ed a rappresentare ogni altro essere, in un modo esplicito od implicito, oppure pervenendo, o non pervenendo all’attuarsi del suo stesso essere, vale a dire, di quella sua eminenza, rappresentativa o produttiva del suo stesso mondo. Questo in virtù di un’inerenza a vari livelli, che è quella che dà origine appunto, in un senso inferiore, ma certo non ancora infimo, allo stesso dominio discorsivo ed argomentativo, ivi incluso la cosiddetta “filosofia”. Ed è con queste nostre osservazioni, che abbiamo voluto esporre quello che erra l’intento del nostro autore, di riallacciare il pensiero, nei suoi vari significati possibili, al principio del Vaticinio, in tutta la sua eminenza, e della conoscenza presenziale, la quale ad esso immediatamente viene a riconnettersi. Tutto questo avrà luogo nei confronti sia di quello che è l’ufficio creativo discendente, il quale stabilisce tutte quante le realtà inferiori, processive e derivate, sia dell’arco ascendente della funzione reintegrativa, o per dirla altrimenti, di quella iniziatica, per cui il creato, dato che sia in quanto tale, in tutti i suoi gradi, trasponendosi nei vari livelli dell’essere, farà ritorno al suo principio, grazie ad un moto che ne concerne l’essere stesso trascendente e complessivo, in tutti i suoi vari aspetti, sempre mercé del tramite del Vaticinio. Vale a dire, che questo moto, “essenziale” secondo la definizione di Mollā Şadrā, ne riguarderà la realtà tutta, non solamente la quiddità, nel senso della generazione e della corruzione, in riferimento ai vari livelli dell’essere. Nel senso del trasporvisi in virtù di quell’essere che la fa risalire senza mutarla, di livello in livello, dato che esso, in quanto perfezione assoluta, ovvero “simplex”, non quella legata invece ad una qualche condizione limitativa, secundum quid, non sia sottoposta a limite, com’è invece per queste ultime, che si annichilano invece col superarlo, nel verso superiore od inferiore. Tra le due, l’ufficio e la realtà del Vaticinio, il quale manifesta al creato, prodotto per suo tramite, la sua stessa realtà originale, efficiente, riproponendogliela siccome il suo stesso fine. Questo in rapporto alla sua funzione giuridica, strumento appunto di questa medesima reintegrazione, nel senso della sua eminenza e centralità significativa, la quale costituisce la formalità conoscitiva della sua sostanza esistenziale, nella loro semplicità distintiva superna, che viene quindi a discernersi nella successiva discesa esistenziale. Ora, come appunto stabilisce il nostro autore, il pensiero viene appunto ad essere radicato in quella realtà adamica primordiale, detentrice dei nomi esemplari, come recita il Sacro Corano, II, 31, supposito della luce muhammadica primordiale, a sua volta scaturigine immediata di Quella Divina, “Luce su luce”, XXIV, 35. Che ne rende pienamente conto, attestandone a sua volta la radice primordiale eminente, la quale ne riguarda direttamente la progenie genuina sotto il riguardo del pensiero, e mediatamente, per negazione ed alterazione, i sottoprodotti spuri del tralignamento. La conoscenza adamica, raggio di quella muhammadica, irradiazione a sua volta di Quella Divina, seppure Tale solo impropriamente, è dunque, per il tramite della conoscenza presenziale, la radice del pensiero discorsivo, nella fattispecie, della cosiddetta “filosofia”. Vocabolo il quale peraltro viene ad esprimere, inteso che esso venga alla lettera, in virtù della sua originaria notazione, molto di più di quello che non potrebbe sembrare invece a prima vista, nulla avendo a che vedere con i facili abusi successivi che lo riguardano. Giacché “filosofia” significa l’amore, o più correttamente, l’“amicizia”, cioè “filia” in greco antico, non certo nei confronti di una conoscenza banale qualsivoglia, ma invece per quella suprema, per la “sofia”, o sapienza, vale a dire, secondo San Tommaso d’Aquino, per la conoscenza “per causas altissimas”. Il che viene a significare l’amore e la dimestichezza per quella superna, oltre che per quella valida, presenziale, da essa derivata a vari livelli, non certo per ogni suo qualsivoglia sottoprodotto menomato e caricaturale. Com’è che invece pretenderebbero taluni, che interpretano grossolanamente il detto celebre del Nunzio divino “Andate a cercare la scienza anche in Cina”, significativamente non in Inghilterra, all’origine dei successivi tralignamenti, né la scienza satanica di Harut e Marut a Babilonia, S. C., II, 102. Tanto da andarsene a cercare la loro pretesa scienza tra gli abomini luciferini della barbarie dissolutiva americana ed europea contemporanea, chiudendo invece gli occhi davanti ai depositi sapienziali rivelati e tradizionali. Dato che anche qui, così come in ogni altro campo, sia possibile distinguere ciò che è autentico, dalla sua contraffazione e caricatura, il che ha sempre la sua radice nella dottrina dei livelli dell’essere, il cui insieme ne include anche la limitazione difettiva e l’inversione dissolutiva. Dicevamo dunque, che il nostro autore afferma correttamente che il pensiero, o la “filosofia”, sia quello valido, sia quello che tale non è, è radicato nella conoscenza adamica ed in quella presenziale, che sono a loro volta irradiazioni di quella muhammadica. Conoscenza adamica che è all’origine in primo luogo di quella presenziale, costituendone il culmine, quindi di quella argomentativa e discorsiva, sia quella corretta, sia di quella tralignata, le quali, si badi bene, nulla hanno a che vedere, almeno direttamente, con una presenza, se non per quel che concerne, come dicevamo sopra, le loro origini, le quali concernono invece un’intuizione iniziale irrefragabile. E neppure nulla hanno a che fare inoltre con una qualsivoglia rappresentazione, perché la ragione accenna, non rappresenta. Intuizione irrefragabile che peraltro non è da riconnettersi direttamente ad una conoscenza presenziale, nel senso della sua sostanza, ma invece ad un suo modo, costituendone quest’ultima l’estremo supposito nel verso discendente, prima delle ulteriori deviazioni e dissoluzioni. La quale non è neppure rappresentativa, come appunto dicevamo, nel senso di una presenza che si riconnetta ad una presenza, del suo medesimo ordine, oppure d’ordine superiore, non di un mero immaginare senza termine di rappresentazione. Avendo dunque questa conoscenza la natura del cenno affatto privo di compimento, vale a dire, o di presenza, oppure di rappresentazione qualsivoglia. Com’è appunto nelle escogitazioni razionali, quelle valide, così come in quelle razionalistiche, le quali, nella loro pretesa di prescindere dal sopramondo, finiscono invece col farsi risucchiare dai vortici tellurici ed inferi, immaginali inferiori quelli tellurici, oppure compiutamente dissolutivi, quelli inferi, non potendosi questo nostro basso mondo sostenere di per sé. Essendo legge di ogni livello dell’essere, di essere concatenato col superiore e con l’inferiore, donde procede, ed a cui procede, ond’è che, prescindendo, sia pure velleitariamente dal superiore, finirà col riguardare direttamente quello inferiore, il quale lo ricondurrà sì all’essere, il che è inevitabile per la necessità della sua processione, ma per il tramite della sua inversione infima e della sua stessa dissoluzione. Come afferma l’Imam Ķomeynī a proposito delle presenze infernali, le quali sono pur sempre presenze d’Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, grazie ai suoi attributi di collera e di punizione. Ora, se la conoscenza adamica è all’origine di ogni conoscenza, la cosa sfaterà, per un verso, la leggenda banale dell’origine ellenica di ogni qualsivoglia “filosofia”, come sottolinea acutamente il nostro autore, avendo essa invece un’origine prettamente ed eminentemente trascendente. Il che toglie di mezzo una volta per tutte il falso argomentare, di chi pretenderebbe di farne a meno, col pretesto specioso della sua origine straniera, il che peraltro è contro la narrazione suddetta del Nunzio divino sulla ricerca della scienza. Dato che la sua origine adamica la iscrive a pieno diritto nelle facoltà genuine, originarie, non avventizie della natura umana, non potendosi fare a meno, sotto il riguardo almeno della virtualità, di quel che è originario nell’uomo, tanto che del tutto giustamente Sayyid Āštiānī, in una nota della sua preziosa Introduzione alla Mişbaĥ dell’Imam Ķomeynī, ebbe a dire che, se è per colpa della filosofia che noi, gli Iraniani, veniamo colonizzati, allora è sino dalla creazione di Adamo, la pace su di lui, che ci è riservato questo destino. Senza tenere peraltro conto del fatto che, a questo medesimo riguardo, entra in gioco un elemento ulteriore. Quest’elemento riguarda il successivo svolgersi delle vicende umane, la cosiddetta “storia”, vocabolo che nell’antica lingua ellenica significava in realtà “indagine”, “descrizione”, più che riguardare i fatti in sé stessi. Essendo esso dovuto al fatto, che detta sapienza originaria, data che essa sia, ha due modi di trasmettersi, che sono modi per così dire “verticali”, a prescindere dalla sua “tradizione” orizzontale. L’uno dei due modi suddetti essendo quello dell’ispirazione, in arabo “waĥy”, peculiare, anche se non esclusiva, secondo lo stesso Sacro Corano, dei Nunzi divini, trasmissione alla quale fa riscontro subordinatamente un’altra ispirazione, questa volta secondaria e conseguente, che ne concerne eminentemente gli eredi e successori. I quali la traggono anch’essi direttamente da Iddio Altissimo, sia magnificato ed esaltato, ma nel contempo anche grazie all’antecedente del Vaticinio, in una sorta di mediazione immediata, e immediatezza mediata, ci si scusi l’apparente gioco verbale. Questa mediazione essendo conseguenza dell’attuarsene della natura trascendente nella successione vicaria del Vaticinio stesso, nella sua contiguità e nel suo nesso, oltre che nella scaturigine divina. Senza che peraltro essi, Nunzi o no che siano, abbiano ad ereditarla dai loro predecessori a modo di beni materiali, senza un intervento divino diretto, com’e stato invece del tutto erroneamente sostenuto a proposito dell’eredità, di cui dice il Sacro Corano, XXVII, 16, di Salomone da Davide, la pace su di loro. Termine quest’ultimo reso in arabo con “ilhām”, vocabolo del quale non ci risulta peraltro esista un qualche corrispettivo nelle lingue occidentali, com’è invece per la tradizione indù, secondo quanto riferisce Guénon. Tenendo conto peraltro inoltre del fatto, che detta ispirazione secondaria può riferirsi anche a quella conoscenza identitaria e presenziale, riflessa propria agli uomini di conoscenza, oltre che in particolare ai continuatori della Rivelazione originale, in quanto, come recita il Sacro Corano, “radicati nella conoscenza”, III, 7. Questo modo secondario di trasmissione può dunque prescindere dall’intervento divino diretto, prendendo corpo nell’ambito di una “tradizione”, o più correttamente, del suo aspetto trascendente ed occulto. Od anche, sotto il riguardo contrapposto alla sola apparenza, non del suo essere in una qualche modo allocato, aspetto “interno”, o con un’altra espressione, che dir si voglia, “esoterico”, che nell’antica lingua ellenica non è se non il comparativo dell’avverbio “eso”, “dentro”, nel senso dunque d’“interiore”, a sua volta comparativo latino di “intus”, anch’esso col senso di “dentro”. Coloro che ignorano sia la lingua araba, che il greco antico, si danno ad immaginare, che questo “interiore” dovrebbe prescindere affatto dalla trascendenza, dimenticando che in arabo il vocabolo che lo esprime, ovverosia “bāţin”, viene ad essere opposto a “żāhir”, vale a dire “apparente”, essendo l’interno, in senso stretto e locale, espresso da “dāķil”, Mentre il suddetto vocabolo ellenico, per parte sua, ha per riscontro tutta una serie di altri termini i quali, specialmente nella dottrina platonica, fanno riferimento alla trascendenza. Dunque la tradizione, andando intesa in un senso per così dire “orizzontale”, come già dicevamo, od apparentemente tale, è la controparte della Rivelazione sotto il riguardo delle vicende mondane, nelle quali si continua appunto la Rivelazione stessa. Il che la fa finita una volta per tutte, con tutte quelle immaginazioni perverse, le quali oppongono l’una all’altra, come se la seconda dovesse distruggere la prima, quantunque talora essa abbia in effetti siccome a spezzare certe concrezioni limitative estranee apposte. Dandosi a questa medesima stregua più luoghi d’origine della Tradizione stessa, con più sequele del suo trasmettersi, sia nel senso del tramandarsi del suo complesso, sia più in particolare, essendo questo il caso che quivi c’interessa, del rispetto interno e trascendente, nel senso che appunto dicevamo poc’anzi, vale a dire, del patrimonio dei suoi tesori sapienziali, i quali sono appunto all’origine del medesimo pensiero discorsivo ed argomentativo. Ora in primo luogo, sono ravvisabile varie culle di questo pensiero: sotto il riguardo della sua origine presenziale. La Cina, l’India, e si faccia riferimento a questo riguardo ai libri del Tucci, oppure la Terra di Saturno, o a livello più corrotto e residuale, le tradizioni dei Druidi celtici, che ritornerà cristianizzata e sublimata nel Medioevo. Od anche le stesse conoscenze sciamaniche, a prescindere dal loro tralignamento in senso residuale sottile, del mondo originale cosiddetto “magico”, con un vocabolo d’origine persiana. Dov’è da rilevarsi, che in questa lista, oltre che in Grecia, è in India ed in Cina, non sappiamo se altrove, che si sviluppa per la prima volta, com’è sottolineato dalle opere del Tucci, un pensiero più peculiarmente razionale. Ma quello che interessa qui al nostro autore, non è una disamina di tale sorta, quanto piuttosto la questione della nascita del pensiero ellenico, che a torto è stato reputato affatto “originale”, del tutto privo di ragione sufficiente, un autentico “miracolo”, come osserva giustamente qui il nostro autore, riportando un asserto di Bertrand Russel, dalla sua “Storia della Filosofia Occidentale”. Tutto questo tenendo conto del fatto che, com’è che appunto già dicevamo poc’anzi, la sua ragione sufficiente va ricondotta o alla trascendenza rivelata del Vaticinio, oppure alla presenza tradizionale della conoscenza presenziale. Asserto del tutto arbitrario di fatto, non solo secondo la sua opinione, quella del “mito classico” è una leggenda già sfatata a suo tempo da Guénon, che la riteneva a buon diritto affatto ingiustificata ed inventata di sana pianta. Essendo qui che il nostro autore mette in rilievo tutti i contatti con le fonti della Tradizione, i quali resero possibile l’innestarsi della sapienza orientale nel mondo ellenico, con la conseguente nascita del suo pensiero della sua “filosofia”. Ma qui si rende necessario un excursus ulteriore, sempre concernente lo svolgersi delle vicende umane. La sapienza primordiale, in quanto tale, è in effetti patrimonio dell’intera umanità, non di particolari popoli o stirpi. All’interno delle singole stirpi si viene solamente delineando un gruppo di depositari della conoscenza, quali più, quali meno appartati dal resto della popolazione. Sono questi i sapienti che, per riconoscimento ed accettazione pressoché unanime dello stesso popolo, hanno l’incombenza del governo della città perfetta preconizzata da Platone nella sua Politeia, sia guidandoli sulle vie di questo nostro basso mondo, sia avviandoli su quelle del sovramondo. Ora d’altra parte, sempre nel corso delle vicende umane, si assiste ad un differenziarsi dei vari gruppi, in seguito a migrazioni. Non vogliamo discutere in questa sede la questione dell’origine settentrionale e polare della presente umanità, vale a dire, del presente circolo degli eventi, dalla sua origine al suo tralignamento contemporaneo, quindi alla sua fine, sino a quello che sarà il nuovo inizio, o temuto ed esecrato, o atteso ed invocato. Migrazioni dovute peraltro, a nostro avviso, a ragione più trascendenti che contingenti. Rimandiamo per questo argomento alla magistrale trattazione contenuta nell’opera “L’Origine Artica nei Veda”, del Tilak, che la discute in rapporto alla tradizione indù, alla quale egli stesso appartiene, la più prossima verosimilmente, tra quelle ancora esistenti, a quella originale, come sottolinea giustamente Guénon, ma forse oggigiorno anche la più lontana, a prescindere dal suo presumibile nucleo interno, per i suoi successivi tralignamenti. Ond’è che, quel che la riguarda, concerne anche le altre tradizioni. Fatto sta, che alla luce di questi studi e ricerche, così come da quanto attestato da tutte le fonti tradizionali, dai testi sacri rivelati quali la Bibbia ed il Sacro Corano, alle leggende elleniche, alle narrazioni babilonesi, a quanto riportato da Platone nel Timeo e nel Critia, non sarebbe improbabile una migrazione verso il sud dalle sedi polari, travolte poi, assieme alle sedi circumvicine, da un disastro immane, o da più disastri, i diluvi di cui nel Timeo. Diluvi e disastri, e qui includiamo anche quelli successivi a quelle prime vicende, i quali avrebbero dunque privato quelle stesse popolazioni, vale a dire, quelle nordiche più vicine alla sede polare originaria, così come quelle successivamente travolte, del loro previo deposito tradizionale, riducendole così ad una stato pressoché selvaggio. Stato nel quale quelle nordiche, le prime ad esservi coinvolte fanno ingresso nel dominio riscontrabile e registrato umanamente delle vicende umane, la cosiddetta “storia” dei “rerum scriptores”. Nel mentre le popolazioni emigrate a sud avrebbero più a lungo conservato il loro patrimonio sapienziale e tradizionale delle origini, fatti salvi i successivi tralignamenti, con le successive conseguenti distruzioni. Dato che queste ultime siano da riguardar siccome un intervento divino immediato, oppure mediato da agenti naturali, come già dicevamo, a loro volta o tralignati, oppure in rivolta contro il tralignamento imposto loro dagli uomini. A questa medesima stregua, sarà spiegato com’è che gli Elleni, come osserva acutamente il nostro autore, nei tempi che rientrano nella presente memoria umana, vale a dire, delle vicende “storiche”, apparissero come semplici bande di selvaggi e ladroni senza legge. Questo prescindere dalla civiltà minoica, verosimilmente la loro prima propaggine verso il sud prima del disastro che li coinvolse a nord, con le due ondate successive dei Micenei e dei Dori, o la sola ondata dorica, come pretendono invece gli studiosi contemporanei. I Micenei che ebbero ragione degli ultimi residui minoici, a loro volta travolti da un disastro, certo da riconnettersi al loro tralignamento, distruggendo quindi Troia, forse da riconnettersi ai minoici. Essendo essi da riconnettersi a loro volta verosimilmente a quei celebri “Popoli del Mare” che, distrutto l’impero ittita, cercarono d’invadere l’Egitto venendone respinti, insediandosi quindi, prima di esservi distrutti da Davide, la pace su di lui, sulle coste della Palestina, dove s’imposero per un certo tempo ai Fenici ed ai Figli d’Israele. La seconda ondata barbarica essendo quella che travolse i Micenei, dando luogo al “Medioevo ellenico” culminando nella fondazione di Sparta, o Lacedemone da parte dei Lacedemoni, i “demoni della Laconia”. Dov’è da osservarsi che, in tutti questi movimenti, solo gli Attici, cioè gli Ateniesi, e gli Arcadi, continuarono a considerarsi autoctoni, vale a dire, indigeni, o aborigeni, non provenienti da altrove, il che potrebbe dare ragione dei successivi sviluppi. In questo modo, è da rilevarsi com’è che la sapienza, ed il pensiero, e la scienza elleniche siano da ricollegarsi, più che ai residui minoici, come osserva giustamente il nostro autore, alle fonti orientali. Tra le quali primeggia l’India, e soprattutto l’Iran, più direttamente ricollegatisi alla tradizione primordiale adamica, essendone l’ultima propaggine al di qual delle montagne del centro dell’Asia, dopo che Atlandide ed i minoici vennero distrutti per le loro prevaricazioni, a prescindere dai residui italici ed iberici. Questo in mancanza di notizie certe sul cosiddetto Nuovo Mondo, l’America di Amerigo Vespucci. Laddove invece, nelle popolazioni nefritiche e pigmoidi delle foreste pluviali a sud dell’equatore, come negli aborigeni delle steppe australiane e negli indigeni tasmaniani, sarebbero probabilmente da ravvisarsi, com’è che afferma anche Evola, gli ultimi, miseri resti degenerati di un antichissimo circolo antecedente degli eventi umani, quello della Lemuria australe, sulla quale non abbiamo peraltro notizie certe. Risulta, in effetti, tendendo conto dei successivi tralignamenti della tradizione indù, attestati dal suo progressivo distaccarsi dalla tradizione primordiale, dopo la missione di Krisna, a ridosso dell’inizio dell’età del ferro, la centralità dell’ufficio della sapienza iranica, ravvivata in tempi più recenti dalla missione di Zaratusta, cioè della tradizione e della sapienza dei Magi, in persiano “Maġān”. Termine che ne designava i detentori eminenti, nulla avendo a che fare con la successiva “magia” degli occidentali, vocabolo significativamente inesistente nella lingua persiana, almeno quella moderna. Sapienza della quale peraltro c’è rimasta una scarsa documentazione scritta, dopo il selvaggio incendio e distruzione di Persepoli da parte di Alessandro il Macedone, il barbaro sanguinario nemico sia degli Elleni, sia dei Persiani, che pose fine in buona parte alla dottrina documentata di Zaratusta, sostituita in seguito, almeno in parte, fatta salva la persistente tradizione orale, dal culto del fuoco. Dov’è da rilevarsi peraltro, a prescindere da queste ultime persistenze, il sostituirsi di una trasmissione scritta a quella orale originale, strumento eminente del trasmettersi della tradizione primordiale, ritenuta mercé di una ben superiore interiorità, come appunto sottolinea Platone nel Timeo. Ripetiamo come tutto questo dovrebbe sfatare una volta per tutte la leggenda dell’originalità della civiltà e della sapienza elleniche, data che non sia se non l’originalità dei primordi, ereditata dai susseguenti detentori, per via di trasmissione ininterrotta, donde ebbero ad attingerla i popoli che, per le cause suddette, l’avevano perduta, Fatto acutamente sottolineato dal nostro autore. Laddove sono peraltro da rilevarsi inoltre due altre circostanze capitali. A cura di Islamshia.org © E' autorizzata la riproduzione citando la fonte